Fattura elettronica, i commercialisti devono proteggere le informazioni da trasmettere

Non dovranno solo preoccuparsi di come attrezzarsi per spedire, a partire dal prossimo primo gennaio, le fatture in via elettronica, ma dovranno anche riflettere sulla protezione dei dati personali contenuti in quei documenti.

Il problema riguarda in prima persona i professionisti, a partire dai commercialisti, che rappresentano il principale snodo di raccolta e invio delle fatture, e coinvolge soprattutto le operazioni B2C (business to consumer).

L’esempio emblematico, anche per la tipologia dei dati che vi possono essere riportati, è quello della parcella dello studio medico, dove di solito è indicato il tipo di visita. Si tratta di informazioni particolari, quelle che prima del Gdpr (il regolamento Ue applicato dal 25 maggio) si definivano”sensibili” (e ora “particolari”) .Dati da proteggere – Una gran massa di dati personali si appresta, dunque, a viaggiare in modalità digitale.

E questo comporta un problema di protezione. Ci sono almeno due motivi per non sottovalutare la questione: in primo luogo perché i dati personali vanno sempre messi in sicurezza; inoltre, perché le soluzioni verso cui la gran parte degli studi si sta orientando è quella di affidarsi ai servizi cloud: la fattura parte dallo studio del professionista, transita per l’hub del provider e, attraverso lo SdI (il nodo di interscambio dell’Agenzia delle entrate) arriva al destinatario finale.

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Cassazione: multa da 66 mila euro ad azienda per utilizzo badge con l’impronta della mano senza l’ok del Garante

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Senza l’autorizzazione del Garante della privacy è vietato raccogliere le impronte della mano dei dipendenti, attraverso un badge per vedere se sono presenti. Ora lo sa una Srl, attiva nel settore della raccolta dei rifiuti, condannata dall’Authority a pagare una sanzione di 66 mila euro, per aver violato il Codice sulla protezione dei dati personali. La società aveva installato un sistema di raccolta dei dati biometrici della mano, per rilevare le presenze dei dipendenti. Azione che – ad avviso del Tribunale che aveva condannato il Garante a pagare 30 mila euro per responsabilità aggravata – non provava il trattamento dei dati in violazione della disciplina di settore.

Per i giudici di prima istanza, infatti, le apparecchiature non prelevavano e non trattavano i dati, utilizzati come «individualizzanti e non come identificanti». In più non esisteva alcuna banca dati. Ragione per cui, andava escluso il “trattamento” e non scattava la tutela prevista dal Codice. La Cassazione (Cassazione_25686-2018) è di diverso avviso e accoglie il ricorso del Garante analizzando, in concreto, il funzionamento del dispositivo finito nel mirino dell’Authority.

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